InVisibili di Corriere - @Corriere The Specials – Fuori dal comune. Quel confine preziosamente labile tra burocrazia e cuore
Hors normes. Fuori dal comune. Ma anche fuori dagli schemi, fuori norma, no standard. Sta già dentro il titolo originale il senso, profondamente in bilico, del nuovo film di Olivier Nakache e Éric Toledano, autori e registi di “Quasi Amici”, “C’est la vie – Prendila come viene” e “Samba”.
In bilico perché “The Specials”, questo il titolo internazionale adottato anche in Italia, si muove funambolico lungo il confine preziosamente labile tra burocrazia e cuore, proprio come la vita dei suoi protagonisti: Bruno (Vincent Cassel) e Malik (Reda Kateb). Uomini di esperienza dediti all’educazione dei bambini autistici. Entrambi responsabili di due organizzazioni no profit, distinte ma unite da una necessaria collaborazione, che guardano anche ai ragazzi provenienti da realtà sociali problematiche per insegnare loro a prendersi cura di quei bambini che la sanità pubblica liquida come “casi” troppo difficili di cui occuparsi. Tanto da essere stati rifiutati da tutti gli altri insegnanti e, ancora prima, dalle istituzioni.
“L’autismo è un disturbo paradossale: più sei considerato un caso complicato e più probabilità hai di restare chiuso in casa senza alcun sostegno”. A dirlo, nel film, è una dottoressa. Una di quelle che dentro il sistema sanitario pubblico ci lavora e ne conosce bene le carenze e le contraddizioni. Lei sa che in medicina si lavora applicando i protocolli, mentre le associazioni come quelle di Bruno, viaggiano su binari diversi. “Sono mossi dal cuore, dalla fede, e in questo sono degli innovatori, rompono gli schemi” dice. “E forse hanno ragione loro”. Anche quando, come nel caso del film, operano senza il rinnovo delle autorizzazioni. Perché loro quei bambini li hanno cresciuti, li hanno visti diventare adolescenti, magari li hanno accompagnati al primo giorno di impiego, che loro gli hanno trovato garantendo in prima persona con i datori di lavoro. Sono loro che hanno guardato negli occhi, giorno dopo giorno, le madri angosciate per il destino dei figli quando loro non ci saranno più, disposte persino a pensare alla morte per entrambi pur di non immaginarli da soli, abbandonati, o rinchiusi e imbottiti di farmaci.
“The Specials- Fuori dal comune” (disponibile on demand dal 18 novembre) è diverso dalle commedie precedenti di Nakache e Toledo. Lontano anni luce dalle risate ardite e argute che i due registi ci hanno strappato con “Quasi amici”. Mettendoci quasi in imbarazzo nel trovarci a ridere a crepapelle di argomenti così delicati e fragili. Questo è un film molto più ruvido, che gratta sulla pelle con quelle domande scomode che nessuno vuole fare. E che mettono in discussione il margine vertiginosamente instabile tra giusto e sbagliato. Un margine che i due registi hanno esplorato facendone diretta esperienza, al seguito delle tante associazioni parigine impegnate in questo campo e sul campo. Un margine che langue, doloroso e vitale insieme, negli occhi lucidi e veri di Vincent Cassel che irradiano ostinazione, determinazione e amore. A costo anche di una profonda solitudine, chiusa in una casa vuota dove non c’è nessuno ad aspettarti perché difficilmente qualcuno sarà in grado di accettare quel grado di dedizione totalizzante.
Con il garbo poetico che è la cifra di Nakache e Toledo, stavolta meno irriverenti e provocatori ma sempre spiazzanti e schietti, il film mette in campo una varietà di storie che sono comunque una minima parte della realtà. Ci mostra quanto importante sia preparare l’ambiente di lavoro all’arrivo di un collaboratore con autismo (come fa per esempio Auticon in Italia e nel mondo). Quanta magia c’è nel momento straordinario in cui un bambino autistico smette di sbattersi la testa sul muro e si siede a tavola con gli altri compagni di casa, così all’improvviso, che poi all’improvviso non è. Quanta bellezza orgogliosa aleggia negli spettacoli di teatro-danza messi in scena dai ragazzi seguiti da queste associazioni, di cui oggi – in tempi di crisi da Covid-19 che molte le sta costringendo alla chiusura – si sente ancora più forte l’importanza, l’esigenza, il bisogno. Per questi ragazzi fuori norma, seguiti da associazioni anche fuori dalle norme, di cui persino la burocrazia a un certo punto non si è curata più. Un po’ per distrazione, forse un po’ anche per convenienza. Perché altrimenti quei bambini, quei ragazzi, nessuno li vorrebbe. Tanto sono complicati. E perché, come è scritto a chiare lettere sul finire del film, “per molto tempo (in Francia) nessun ente pubblico ha voluto sollevare il problema, temendo che la chiusura di queste associazioni potesse esporre molti soggetti fragili a drammatiche interruzioni delle cure”. Cure che sono fatte di azione, confronto con la vita, messa in gioco e in discussione. Di tutto: della normalità e delle norme.
Capite bene, allora, quanto precario sia il confine tra burocrazia e cuore. E quando un film come questo, sui titoli di coda, ti lascia pieno di domande e con poche – ma importanti – risposte, vuol dire che quel film sta vivendo la migliore vita possibile. Ancora di più se, con gli occhi lucidi e l’anima piena di emozione, ti strappa persino una bella risata, geniale e liberatoria. Come la vita, nella sua tragicomicità.
di Gabriele Bazzocchi
Lo studio sull’impatto del coronavirus nei confronti delle persone con sindrome di Down, prodotto dall’organizzazione internazionale di ricercatori T21RS, arriva a conclusioni ben diverse da quelle diffuse qualche tempo fa dall’Istituto Superiore di Sanità, secondo cui per le persone con sindrome di Down vi sarebbe un rischio di mortalità dieci volte superiore a quello della pubblicazione generale. Niente, dunque, “protezioni speciali” per queste persone, ma solo qualche precauzione in più, a seconda di particolari contingenze, come sottolinea Gabriele Bazzocchi dell’Associazione AIPD
È stato pubblicato nei giorni scorsi uno studio l’impatto che il contagio del coronavirus ha avuto, e sta ancora avendo, sulle persone con sindrome di Down, prodotto dall’organizzazione internazionale di ricercatori sulla sindrome di Down T21RS e originato dalle risposte al questionario internazionale di cui avevamo dato notizia nel giugno scorso anche sulle nostre pagine.
A questo e a quest’altro link sono disponibili rispettivamente la pubblicazione originale (in inglese) dedicata allo studio e il poster (in italiano) che ne riassume i principali esiti. Da parte nostra, però, ben volentieri cediamo la parola all’interessante commento di Gabriele Bazzocchi, presidente dell’AIPD di Ravenna (Associazione Italiana Persone Down) e consulente scientifico pro-tempore dell’AIPD Nazionale, organizzazione che ha attivamente contribuito allo studio.
Cosa dunque va a dire lo studio internazionale realizzato da T21RS?
Il lavoro riporta informazioni sui sintomi, i fattori di rischio e gli esiti relativi a 1.046 persone con sindrome di Down che hanno contratto l’infezione da Covid-19 in vari Paesi, ma principalmente in sette di essi, tra cui l’Italia.
I sintomi nelle persone con sindrome di Down sono stati gli stessi che nella popolazione generale: febbre, tosse, fatica a respirare. Sono stati invece più frequenti alterazioni dello stato di coscienza.
I fattori di rischio per l’ospedalizzazione e la mortalità erano sovrapponibili a quelli della popolazione generale: età avanzata, sesso maschile, diabete, obesità, demenza, con in più la presenza di difetti cardiaci congeniti.
Il tasso di mortalità mostrava un rapido aumento sopra i 40 anni ed era circa tre volte più alto di quello dei soggetti di controllo senza la sindrome di Down, anche dopo avere aggiustato il dato statistico, tenendo conto dei fattori di rischio per la mortalità da Covid-19: il rischio di mortalità per le persone con sindrome di Down con più di 40 anni era comparabile a quello della popolazione generale di 85 anni.
Si conclude, quindi, raccomandando di rivolgere una particolare attenzione e cura alle persone con sindrome di Down adulte sopra i 40 anni, ma anche di fornire a tutte le persone con sindrome di Down di ogni età una supplementazione con vitamina D e di sottoporle a vaccinazione sia per l’influenza che per lo pneumococco nel corrente inverno, in aggiunta alle misure che localmente vengono disposte, quali distanziamento sociale, uso della mascherina e lavaggio frequente delle mani.
Come si può vedere, i dati di questo studio sono molto più completi e portano a conclusioni molto diverse da quell’informazione circolata qualche tempo fa, derivante da un comunicato dell’Istituto Superiore di Sanità, il quale affermava un rischio di mortalità per la persona con sindrome di Down dieci volte superiore a quello della pubblicazione generale [se ne legga anche sulle nostre pagine, N.d.R.].
Per altro, dopo avere pubblicato la propria ricerca, T21RS ha voluto diffondere una dichiarazione, rivolta in particolare alle Autorità Sanitarie del Regno Unito, sulla “speciale protezione” che era stata decisa per le persone con sindrome di Down.
Infatti tutte le persone con sindrome di Down sopra i 18 anni erano state inserite nella lista dei soggetti “estremamente vulnerabili” all’infezione da Covid-19, decisione, questa, che rischiava di avere pesanti conseguenze sia sul piano sia fisico che mentale per questa popolazione, perché andava a restringere in modo irragionevole le loro opportunità di occupazione, lavoro, svago e tutte le altre attività, con un impatto negativo sui loro contesti di vita.
La dichiarazione di T21RS (disponibile in originale a questo link) ribadisce quindi come la popolazione con sindrome di Down rappresenti un gruppo eterogeneo i cui rischi di ospedalizzazione e morte sono del tutto simili a quelli della popolazione generale, ad eccezione del fatto che se in questa il rischio di conseguenze gravi si realizza dopo i 60 anni, nella sindrome di Down ciò inizia dopo i 40. Sotto questa età, pertanto le persone con sindrome di Down non devono essere confinate o diversamente trattate, a meno che non soffrano di obesità o epilessia.
Questa dichiarazione si era resa necessaria perché contemporaneamente era stata pubblicata dagli «Annals of Internal Medicine» una lettera da parte di un gruppo di ricercatori sempre inglesi, che invece concludeva che per la popolazione con sindrome di Down esisterebbe un rischio quattro volte superiore per un’ospedalizzazione, una volta contratto il Covid-19, e che sarebbe di dieci volte il rischio di mortalità, per cui sarebbero persone da proteggere strategicamente.
Come si può capire, è questo un argomento che sta dando adito a molte discussioni, e quando queste vengono condotte sul piano scientifico e non pregiudiziale, ideologico, fanno sempre bene, ma anche a questo studio inglese sono state fatte obiezioni convincenti: i dati, infatti, si riferiscono a 4.053 persone con sindrome di Down di cui solo in 27 sono decedute con un’età media di 61 anni e nessuna di loro aveva meno di 50 anni, per cui non supportano le conclusioni a cui gli Autori della lettera sono arrivati.
In conclusione vale quanto già detto in altre occasioni: normali attenzioni predisposte per tutte le persone a seconda delle locali condizioni di contagio. Particolare cura alle persone con sindrome di Down giovani che abbiano seri problemi di obesità e malattie neurologiche. Particolare cura alle persone con sindrome di Down sopra i 40 anni. Vitamina D e vaccini a tutti.